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Il rito bizantino
La liturgia bizantina affonda le sue radici nella Liturgia di Costantinopoli, introdotta con la dominazione bizantina nell’Italia meridionale, dove assunse poi caratteristiche proprie, si parla di rito italo-bizantino, in quanto consiste in una variante italica del suddetto rito.
La Divina liturgia, segue i formulari di San Giovanni Crisostomo, celebrato nella maggior parte dei giorni dell’anno, quella di San Basilo Magno celebrato nelle domeniche di Quaresima e in altre festività solenni e la Liturgia dei Presantificati celebrata i mercoledì e venerdì e i primi tre giorni della Settimana Santa.
La divina Liturgia segue uno schema fisso, sebbene le letture e gli inni variano a seconda del calendario liturgico.
L’anno liturgico bizantino segue tre cicli di feste quelle a data fissa, quelle a data mobile, quello settimana e i formulari.
La liturgia si caratterizza per la solennità ed il simbolismo, il rito per la presenza del clero uxorato, la somministrazione dell’Eucaristia è distribuita sotto le due specie il vino e il pane lievitato.
IL BATTESIMO
Il Battesimo viene amministrato con una triplice immersione nel fonte battesimale, nella stessa cerimonia vengono impartiti anche la Prima Comunione e la Cresima.
IL MATRIMONIO
Suggestiva è invece la celebrazione del Matrimonio. Il sacerdote accoglie alla porta della chiesa i futuri sposi dopo le domande e la benedizione di rito il sacerdote e la coppia avanzano lungo la navata mentre si canta l’inno adatto alla circostanza.
Il sacerdote rientra nel vima e inizia la celebrazione della Divina Liturgia.
Ai fidanzati che si promettono in matrimonio, il sacerdote mette all’anulare gli anelli, simbolo dell’azione di Dio che li unisce, segue il momento dell’ Incoronazione, le corone poste sul capo degli sposi stanno ad indicare che ognuno riceve l’altro come corona e cioè come splendido ornamento e perfezionamento.
Infine dopo aver sorseggiato per tre volte entrambi dallo stesso calice di vino benedetto, memoria della benedizione di Gesù alle Nozze di Cana, il calice viene gettato con forza per terra dal sacerdote perché si rompa, questa parte rappresenta l’unione spirituale e corporea degli sposi e l’indissolubilità del matrimonio, poi gli sposi compiono tre giri intorno all’altare, ciascuno con una candela in mano metafora della vita coniugale che dovranno percorre insieme, rischiarati dalla luce della fede.
Mentre si canta l’ "Isaia", che simboleggia la sacra danza con cui presso tutti i popoli antichi si soleva accompagnare ogni solennità religiosa.
I RITI DELLA SETTIMANA SANTA
La Pasqua per le comunità arbëreshe è la ricorrenza centrale dalla cui data dipendono le altre feste.
Particolare significato assumono i riti della Settimana Santa, che differiscono da paese a paese.
Secondo la tradizione, essi prendono il via dal sabato precedente la domenica delle Palme, meglio conosciuto come il Sabato di Lazzaro.
Era consuetudine in tempi passati commemorare la resurrezione di Lazzaro, infatti gruppi di persone al vespro del sabato e all’alba della domenica andavano in giro per il paese, portando foglie di alloro e cantando la kalimera “?a??µe?a” ad esso dedicata, il termine greco che significa “Buogiorno” viene usato dagli albanesi riferito al canto in quanto ha significato di augurio, saluto, esse effettivamente vengono cantate in periodi dell’anno in quanto legate a particolari festività del calendario liturgico.
A livello folklorico viene tolto il pupazzo “kreshmeza”.
La Settimana Santa prevede sacre ufficiature “akoluthie” per tutti i sette giorni. I primi tre sono dedicati al Cristo Sposo alla somministrazione dell’olio santo che è propria del mercoledì. Il giovedì è dedicato alla lavanda dei piedi, al banchetto mistico e alla lettura dei 12 vangeli.
La celebrazione delle Grandi ore e il vespro preludono al funerale di Cristo portato in processione, mentre i fedeli intonano i versi delle kalimera e Javës së Madhës.
Con le note gioiose dell’alleluia accompagnano la cerimonia durante la quale il sacerdote cosparge l’edificio di foglie di alloro e dopo due giorni di silenzio si sciolgono le campane che torneranno mute fino all’alba della domenica mattina quando si svolge la funzione della “Fjalza e Mirë”.
LE ICONE
Il termine icona deriva dal greco “eikon” tradotto con immagine, identifica una raffigurazione sacra, dipinta su tavola del messaggio delle Sacre Scritture affinchè essa rimanesse immutabile venivano creati e tramandati da un autore all’altro, da una generazione all’altra, gli originali iconografici.
Durante l’elaborazione di questi modelli,i volti dei santi perdevano i loro tratti individuali e si cambiano in simboli likì in segni di una soprannaturale spiritualità. L’icona che per lo più rappresenta immagini di Santi o di personaggi divini fa la sua comparsa nei primi secoli dell’ VIII secolo, quando l’imperatore bizantino Leone III proibì il culto delle icone che venne poi riammesso nel 787 dal Concilio Ecumenico.
Molte icone furono distrutte,ma la venerazione non si è fermò, anzi continuò e i suoi seguaci furono crudelmente perseguitati, molte furono salvate perché trasportate in Occidente da monaci pittori che trasmigrarono nei conventi d’Italia.
L’icona illustrando un episodio evangelico lo rappresenta al di fuori del tempo e dello spazio in tutte le sue parti, è una visione trasfigurata di esso. I personaggi rappresentati sono dipinti non in modo reale ma con il volto trasfigurato che dimostra che essi appartengono al mondo celeste e si sono già rivestiti di un corpo incorruttibile. Il disegno dei corpi non tiene conto dei canoni anatomici inoltre esiste una sobrietà nei movimenti e nei gesti dei personaggi che sono rappresentati in atteggiamento fisso ,ieratico e di solito frontale privi di movimento.
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